sabato 27 novembre 2010

Tree of Mind - Ernst Von Glasersfeld VI





[SEGUE]


Considerazioni su spazio, tempo e concetto di identità
(parte sesta)



La questione che rimane, allora, è questa: se un soggetto che esperisce può arrivare a concepire la ripetizione, cosa altro deve fare per concepire gli “oggetti” o, se vogliamo usare il termine tradizionale, le “cose in se stesse”?

Per sostenere che la cosa che sto prendendo è la stessa che avevo in mano ieri, anche se non è stata continuamente presente nel mio campo di esperienza, devo fare molte più operazioni di quelle necessarie per decidere che non c’è una differenza rilevante tra la cosa di oggi e quella di ieri. Ciò che serve è precisamente una costruzione mentale che può sostituire l’esperienza attuale con la presenza continua dell’oggetto. Una tale costruzione è complessa, perché deve soddisfare diverse condizioni. Per concepire la continuità di un oggetto che non viene  esperito continuamente, il soggetto conoscente deve, prima di tutto, avere uno strumento per riconoscere gli oggetti dell’esperienza quando essi appaiono di nuovo. Questo, naturalmente, è il meccanismo della ripetizione. Il ripetersi dei confronti che produce il giudizio “questo è un oggetto che ho esperito prima”, porterà all’astrazione di qualunque cosa sia stata usata per caratterizzare l’oggetto nelle sue ripetute apparizioni. A seconda di quali altri compiti un tale strumento di riconoscimento è chiamato a svolgere, esso è variamente chiamato: “modello”, “concetto” o “definizione”. Il punto importane nel presente contesto è che qualsiasi strumento di riconoscimento di questo tipo, una volta messo in funzione, potrebbe servire anche come “ri-presentazione”.

Insisto sul trattino, perché senza di esso la parola è stata usata in maniera ostinata da realisti più o meno ingenui che volevano farci credere che le rappresentazioni sono immagini mentali di cose che sono “là fuori”. Nel mio modo di parlare, invece, ri-presentazione significa semplicemente “presentare ancora”, ad un livello immaginario, qualcosa che non è disponibile come esperienza immediata.

Le ri-presentazioni giocano un ruolo importante nella percezione perché permettono a chi percepisce di “riconoscere” gli oggetti quando solo una parte dei loro componenti necessari è effettivamente percepita al momento. Le ri-presentazioni danno la possibilità di completare le esperienze cosicché queste esperienze possono essere considerate la ripetizione di un’esperienza precedente, e rendono possibile evocare, per esempio, un’esperienza visiva quando il campo visivo è vuoto. Ma – e voglio sottolinearlo – le ri-presentazioni consistono in niente altro che materiale sperimentale che, in una forma o in un’altra, esse producono come un re-play [la ripetizione di qualcosa che si è prima registrato  - n.d.t.]. Quindi, non ci sono le basi per presumere che le ri-presentazioni nascano come immagini interiori del mondo esterno; invece, sembra piuttosto plausibile che esse, costituiscano il materiale a cui il soggetto conoscente da forma nella costruzione della realtà.

Solo quando si è astratto dalle situazioni ripetute dell’esperienza una ri-presentazione più o meno permanente di un oggetto, si può avere la possibilità di concepire, in ogni senso, quell’oggetto come indipendente dal flusso della propria esperienza immediata. Tuttavia, tale indipendenza è precisamente ciò che deve essere in maniera specifica attribuito all’oggetto se si vuole pensarlo come un continuo incurante del suo essere  esperito.

L’attribuzione di quella indipendenza porta con sé la necessità di una ulteriore espansione concettuale. La continuità dell’oggetto implica il fatto che esso deve essere accessibile, almeno potenzialmente, anche quando non è nel campo dell’esperienza del soggetto. Questo per dire che ci deve essere un luogo dove l’oggetto può aspettare di essere esperito. Questo luogo, per definizione, si trova al di fuori della sfera dell’esperienza presente e costituisce ciò che ho definito “proto-spazio” perché non ha sistema metrico e non è, né più né meno, che uno spazio dove gli oggetti che hanno ricevuto una forma, possono ibernare quando non sono esperiti.

Usando delle espressioni metaforiche quali “aspettare” e “ibernare”, ho subdolamente introdotto il concetto di tempo. Ciò è, in verità, inevitabile. Tuttavia, è ancora un “proto-tempo” perché, come il concetto primitivo di spazio, non ha sistema metrico e serve per fornire niente di più della semplice continuità degli oggetti quando questi non sono essi stessi coinvolti nel flusso dell’esperienza immediata. Non fa niente di più che tessere un filo da un’apparizione all’altra, al di fuori e al di là della successione di oggetti ed eventi che il soggetto registra con deliberata consapevolezza. È come una seconda corsia nella quale ipotetiche continuità devono essere mantenute fuori dalla vista, come lo erano, mentre l’attenzione del soggetto si soffermava sul flusso dell’esperienza immediata. Questi fili ipotetici uniscono le lacune dell’esperienza nelle quali gli oggetti che essi uniscono non sono al momento  esperiti. Come tali, essi non costituiscono il tempo – sono semplici fili di identità individuale. Ma questi fili diventano un componente indispensabile della concezione del tempo quando, come fili di continuità, sono applicati nel susseguirsi delle esperienze correnti registrate tra le manifestazioni dei singoli oggetti che essi uniscono. Allora  sono improvvisamente visti correre lungo o attraverso quella successione di esperienze, prestando ad essa sia la continuità che la durata.

[CONTINUA]



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