Spesso l’anima sonnecchia per anni e anni. Talvolta cade in letargo, anche in mezzo ad un’esistenza di turbine: non sono i giorni vestiti a festa quelli in cui l’anima vive. Ma ad uno svolto improvviso, svegliata da un misterioso campanello d’allarme, si desta e comprende che quella è l’ora di andare al di là della cerchia delle cose e delle passioni immediate, alla ricerca della verità intima e profonda che ora le necessita ad ogni costo. Una sventura, una malattia, un dolore determinano quasi sempre questi bruschi risvegli.
Molte volte, del resto, la morte ci sfiora, ma non ce ne accorgiamo. Se avessimo preso quel posto, se un semplice caso non ci avesse trattenuto, se fossimo partiti quel tal giorno, la morte ci avrebbe colpiti. Il caso ci ha salvati perché non era ancora l’ora per noi.
E continuiamo a vivere senza pensarci.
Veramente, siamo come dei fanciulli che giocano nel giardino dell’incoscienza. Dovremmo invece ringraziare il destino di aver fatto deviare la morte dalla nostra strada, ricordarci che ha le ali ai piedi e le mani senza guanti. E tener sempre pronti i nostri quattro stracci..
N. Salvaneschi, Consolazioni
Non so per quale ragione, ma questa pagina di Salvaneschi, profonda e intima, mi ha richiamato alla memoria quest’altra pagina, diversa, anzi diversissima: “Dal 1930 al 1950 si diffonde la pratica della morte in ospedale. Le cerimonie e il lutto si fanno sempre più contenute[…]. Alla morte spetta ora quel tipo di censura che in precedenza era stata riservata al sesso. […] Così come il sesso viene bandito dalla sfera pubblica, la morte lo è da quella privata”.
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