domenica 28 novembre 2010

Tree of Mind - Ernst Von Glasersfeld VII





[SEGUE]


Considerazioni su spazio, tempo e concetto di identità
(parte settima)




In questo modello il concetto o come avrebbe detto Bentham, la finzione dell’identità individuale è l’elemento chiave nella costruzione mentale delle nozioni fondamentali di spazio e tempo. Entrambi nascono come corollari del cambiamento che avviene quando la relazione di ‘stessità’ è trasportata dal regno dell’esperienza del soggetto al regno fittizio della realtà indipendente. Mentre gli oggetti dell’esperienza possono, invece, essere confrontati l’uno con l’altro dal soggetto che riflette, e che può giudicare se sono gli stessi o sono diversi, gli oggetti posti al di là dell’interfaccia dell’esperienza non sono accessibili a nessuna operazione di questo tipo e devono, perciò, restare incomparabili nel significato originale della parola. Se nonostante la loro inaccessibilità si attribuisce ad essi un’identità individuale più o meno permanente, si deve necessariamente creare uno spazio “dove” gli oggetti possano risiedere e un tempo “durante” il quale essi conservino la loro identità “mentre” altre cose occupano l’attenzione del soggetto che  esperisce.

Incidentalmente questo modello getta anche una luce interessante sul concetto di cambiamento e di conseguenza, sul concetto di causalità. Per dire che i fiori sulla mia scrivania “sono appassiti” devo credere che le cose secche e cadenti che vedo ora sono le identiche cose che ho visto brillanti e bagnate di rugiada pochi giorni fa. Se sospettassi di una sostituzione, non potrei pensare esattamente ad un appassimento, né avrei motivo di cercare qualche agente che potrebbe avere provocato il cambiamento che non c’è stato. Infatti la costruzione del concetto di cambiamento richiede un giudizio del “differente” con riguardo ai due oggetti dell’esperienza che sono considerati essere uno, e lo stesso, nel senso dell’identità individuale. D’altra parte è proprio il concetto di cambiamento che rende possibile attribuire l’identità individuale agli oggetti dell’esperienza che sono considerati diversi. Effettivamente, quell’attribuzione qualche volta non ha niente a che fare con la stessità nel senso di equivalenza e potrebbe essere basata solamente su qualunque cosa che sia presa come prova di continuità.

Una persona la cui identità è messa in discussione perché gli anni di assenza lo hanno reso irriconoscibile alla sua famiglia, come ultima risorsa, racconterà dei ricordi di avvenimenti esperiti in loro compagnia. Più spesso sì che no, questo avrà la meglio, perché il possesso di ricordi specifici è accettato come prova inconfutabile di continuità individuale. (Non importa come appare o come sembra oggi – se ricorda come abbiamo scalato il muro e rubato le fragole dal giardino del vicino, deve essere mio fratello!). Potrebbe essere uno shock rendersi conto che questa “prova” è valida solo perché non crediamo nella telepatia. Se considerassimo possibile la trasmissione del pensiero, il ricordo non servirebbe più come prova di identità.

Una domanda che resta è sicuramente questa: perché dovremmo essere così desiderosi di investire gli oggetti dell’esperienza con una identità individuale? Potrebbero esserci diverse risposte, ma quella che mi sembra la più soddisfacente scaturisce dal suggerimento dato da William James quando parla di soggetti “che mettono a posto” la loro esperienza. Questo mettere a posto significa mettere ordine, cercare di sistemare. Qualsiasi forma prenda quello sforzo, deve essere basato sulla ripetizione, sull’astrazione delle regolarità, e perciò sull’assunto che l’esperienza ci permetterà sempre di conservare qualcosa costante. E quale può essere il modo più potente di mantenere un “oggetto” costante se non quello di dare semplicemente per scontato che, quando non lo stiamo sperimentando, l’oggetto deve restare l’individuo che era quando lo sperimentavamo? Quando le persone hanno fatto questo, per la prima volta, probabilmente non erano consapevoli di creare il mondo di “essere” che avrebbe fornito per sempre ai filosofi il problema irrisolvibile dell’ontologia.

ERNEST VON GLASERSFELD

(Monaco di Baviera, 8 marzo 1917 – Leverett, 12 novembre 2010) è stato un filosofo e cibernetico tedesco, vissuto a lungo in Irlanda, in Italia e negli Stati Uniti.

Professore Emerito di Psicologia all'Università della Georgia, Associato di Ricerca presso lo Scientific Reasoning Research Institute, e Professore Aggiunto nel Dipartimento di Psicologia dell'Università del Massachusetts, membro del Board of Trustees della Americans Society of Cybernetics, dalla quale ha ricevuto il McCulloch Memorial Award nel 1991.

Studioso della comunicazione uomo-animale e della traduzione meccanica, ha sviluppato il suo modello di costruttivismo radicale, secondo il quale si deve rinunciare all'ontologia. Contesta l'idea che la conoscenza umana debba perseguire una rappresentazione vera ed oggettiva di un mondo già esistente "in sé", poiché per dimostrare una tale verità sarebbe necessario confrontare ogni conoscenza con quella parte della realtà che essa dovrebbe rappresentare; cosa non possibile, poiché per fare questo confronto si dovrebbe conoscere la realtà così com'era prima di passare attraverso le operazioni del soggetto osservatore: in altre parole, si richiederebbe un confronto tra una cosa che si conosce ed un'altra che non è conoscibile.

Egli è convinto che i concetti che adoperiamo per "maneggiare" il mondo della nostra esperienza siano il risultato della nostra attività "costruttiva", nel corso della quale applichiamo una selezione negativa (principio di viabilità), eliminando tutto quello che non serve o non funziona, in modo che ciò che rimane alla fine risulti adatto, adoperabile o (come egli preferisce dire) “viabile”, cioè funzionalmente percorribile.

sabato 27 novembre 2010

Tree of Mind - Ernst Von Glasersfeld VI





[SEGUE]


Considerazioni su spazio, tempo e concetto di identità
(parte sesta)



La questione che rimane, allora, è questa: se un soggetto che esperisce può arrivare a concepire la ripetizione, cosa altro deve fare per concepire gli “oggetti” o, se vogliamo usare il termine tradizionale, le “cose in se stesse”?

Per sostenere che la cosa che sto prendendo è la stessa che avevo in mano ieri, anche se non è stata continuamente presente nel mio campo di esperienza, devo fare molte più operazioni di quelle necessarie per decidere che non c’è una differenza rilevante tra la cosa di oggi e quella di ieri. Ciò che serve è precisamente una costruzione mentale che può sostituire l’esperienza attuale con la presenza continua dell’oggetto. Una tale costruzione è complessa, perché deve soddisfare diverse condizioni. Per concepire la continuità di un oggetto che non viene  esperito continuamente, il soggetto conoscente deve, prima di tutto, avere uno strumento per riconoscere gli oggetti dell’esperienza quando essi appaiono di nuovo. Questo, naturalmente, è il meccanismo della ripetizione. Il ripetersi dei confronti che produce il giudizio “questo è un oggetto che ho esperito prima”, porterà all’astrazione di qualunque cosa sia stata usata per caratterizzare l’oggetto nelle sue ripetute apparizioni. A seconda di quali altri compiti un tale strumento di riconoscimento è chiamato a svolgere, esso è variamente chiamato: “modello”, “concetto” o “definizione”. Il punto importane nel presente contesto è che qualsiasi strumento di riconoscimento di questo tipo, una volta messo in funzione, potrebbe servire anche come “ri-presentazione”.

Insisto sul trattino, perché senza di esso la parola è stata usata in maniera ostinata da realisti più o meno ingenui che volevano farci credere che le rappresentazioni sono immagini mentali di cose che sono “là fuori”. Nel mio modo di parlare, invece, ri-presentazione significa semplicemente “presentare ancora”, ad un livello immaginario, qualcosa che non è disponibile come esperienza immediata.

Le ri-presentazioni giocano un ruolo importante nella percezione perché permettono a chi percepisce di “riconoscere” gli oggetti quando solo una parte dei loro componenti necessari è effettivamente percepita al momento. Le ri-presentazioni danno la possibilità di completare le esperienze cosicché queste esperienze possono essere considerate la ripetizione di un’esperienza precedente, e rendono possibile evocare, per esempio, un’esperienza visiva quando il campo visivo è vuoto. Ma – e voglio sottolinearlo – le ri-presentazioni consistono in niente altro che materiale sperimentale che, in una forma o in un’altra, esse producono come un re-play [la ripetizione di qualcosa che si è prima registrato  - n.d.t.]. Quindi, non ci sono le basi per presumere che le ri-presentazioni nascano come immagini interiori del mondo esterno; invece, sembra piuttosto plausibile che esse, costituiscano il materiale a cui il soggetto conoscente da forma nella costruzione della realtà.

Solo quando si è astratto dalle situazioni ripetute dell’esperienza una ri-presentazione più o meno permanente di un oggetto, si può avere la possibilità di concepire, in ogni senso, quell’oggetto come indipendente dal flusso della propria esperienza immediata. Tuttavia, tale indipendenza è precisamente ciò che deve essere in maniera specifica attribuito all’oggetto se si vuole pensarlo come un continuo incurante del suo essere  esperito.

L’attribuzione di quella indipendenza porta con sé la necessità di una ulteriore espansione concettuale. La continuità dell’oggetto implica il fatto che esso deve essere accessibile, almeno potenzialmente, anche quando non è nel campo dell’esperienza del soggetto. Questo per dire che ci deve essere un luogo dove l’oggetto può aspettare di essere esperito. Questo luogo, per definizione, si trova al di fuori della sfera dell’esperienza presente e costituisce ciò che ho definito “proto-spazio” perché non ha sistema metrico e non è, né più né meno, che uno spazio dove gli oggetti che hanno ricevuto una forma, possono ibernare quando non sono esperiti.

Usando delle espressioni metaforiche quali “aspettare” e “ibernare”, ho subdolamente introdotto il concetto di tempo. Ciò è, in verità, inevitabile. Tuttavia, è ancora un “proto-tempo” perché, come il concetto primitivo di spazio, non ha sistema metrico e serve per fornire niente di più della semplice continuità degli oggetti quando questi non sono essi stessi coinvolti nel flusso dell’esperienza immediata. Non fa niente di più che tessere un filo da un’apparizione all’altra, al di fuori e al di là della successione di oggetti ed eventi che il soggetto registra con deliberata consapevolezza. È come una seconda corsia nella quale ipotetiche continuità devono essere mantenute fuori dalla vista, come lo erano, mentre l’attenzione del soggetto si soffermava sul flusso dell’esperienza immediata. Questi fili ipotetici uniscono le lacune dell’esperienza nelle quali gli oggetti che essi uniscono non sono al momento  esperiti. Come tali, essi non costituiscono il tempo – sono semplici fili di identità individuale. Ma questi fili diventano un componente indispensabile della concezione del tempo quando, come fili di continuità, sono applicati nel susseguirsi delle esperienze correnti registrate tra le manifestazioni dei singoli oggetti che essi uniscono. Allora  sono improvvisamente visti correre lungo o attraverso quella successione di esperienze, prestando ad essa sia la continuità che la durata.

[CONTINUA]



mercoledì 17 novembre 2010

Tree of Mind - Ernst Von Glasersfeld IV





[SEGUE]

Considerazioni su spazio, tempo e concetto di identità 
(parte quarta)


A quanto ne so, analisi funzionali dei concetti furono fornite per la prima volta da Jeremy Bentham nella sua Theory of Fictions. È li che ho travato il seguente approfondimento:

«Nessuna coppia di entità di qualsiasi tipo può presentarsi alla mente simultaneamente (né può lo stesso oggetto presentarsi in tempi diversi) senza presentare l’idea di Relazione. Poiché la relazione è un’entità fittizia, che è prodotta, e si pone, così spesso con la mente, avendo percezione di un oggetto, si ottiene, nello stesso tempo o in qualche istante immediatamente successivo, la percezione di qualsiasi altro oggetto, o persino di quello stesso oggetto, se la percezione è accompagnata dalla percezione del suo essere lo stesso:  Diversità è nel primo caso il nome della relazione, Identità nell’altro caso. Ma dato che l’identità è solo la negazione della diversità, allora se, in nessuna situazione, ci fosse stata diversità, neppure, in ogni situazione alcuna idea come quella di identità sarebbe esistita».

Qui, Bentham non sembra avere trovato il modo più chiaro per dire ciò che aveva in mente. Quando sono arrivato a questo passaggio, ho dovuto leggerlo diverse volte prima che le cose andassero al loro posto. Ciò che egli aveva in mente è ovviamente al di là della mie possibilità o quelle di chiunque altro. Ma posso provare a interpretare ciò che deduco dalla sua affermazione.
La visione interna, che a me sembra così importante, è in qualche modo oscurata dall’ambiguità inerente alla parola “stesso”. A volte questa parola ha confuso i pensatori più chiari, perché non è il genere di ambiguità che è risolta abitualmente e facilmente dal contesto. Ci sono tuttavia dei contesti nei quali si rivela in modo chiaro. Prendete per esempio, le due affermazioni: “Questa è la stessa ragazza che ho visto ieri” e “ha comprato lo stesso vestito di sua sorella”. La ragazza è una e sempre la stessa, vista due volte; i vestiti sono due, considerati equivalenti in ogni aspetto che uno sceglie di considerare quando li si confronta.
“Stessità” e “Differenza” allora, si riferiscono alle relazioni, e le relazioni sono istituite o costruite dal soggetto che  esperisce. Qualsiasi costruzione di questo tipo è un fatto sequenziale, una successione di momenti di attenzione focalizzata della mente più l’attività della mente del porre in relazione.

Non ci sono due oggetti nel flusso dell’esperienza personale che, rispetto a qualche criterio, non possano essere considerati “gli stessi”, né ci sono due oggetti che non possano essere considerati, rispetto a qualche criterio, “differenti”. Colui che  esperisce è sempre libero di scegliere i criteri di similarità. Tuttavia, se e quando, uno decide di considerare due segmenti dell’esperienza come gli stessi, questa decisione di per sé non determina se uno li considera due esperienze di uno stesso oggetto singolo o due esperienze di due oggetti equivalenti.


[CONTINUA]



sabato 13 novembre 2010

Tree of Mind - Earth Observatory



Uno degli aspetti più interessanti delle foto notturne è che le luci rivelano la distribuzione della popolazione.
In quest'immagine dell'Egitto si vede bene che la popolazione è quasi del tutto concentrata lungo la Valle del Nilo, che rappresenta solo una piccola parte della superficie del paese.
L'area metropolitana del Cairo, di una luminosità intensa, forma la base di quello che sembra un fiore con un lungo gambo.
La città ha quasi 8 milioni di abitanti e con l'area metropolitana supera i 15.
Di giorno le cittadine del delta sono difficili da individuare, nascoste dalla densa vegetazione agricola. Invece queste aree abitate e le strade che le connettono diventano chiaramente visibili di notte.

Chiaramente visibili di notte...

William L. Stefanov

giovedì 4 novembre 2010

Tree of Men - Douglas Coupland III





[SEGUE]

procelerazione: l’accelerazione dell’accelerazione.

pseudoalienazione: l’incapacità degli esseri umani di creare situazioni autenticamente alienanti.

reincarnazione lampo: il fatto che quasi tutti gli adulti desiderano un cambiamento radicale anche quando hanno una vita fantastica. Il desiderio di reincarnarsi da vivi è quasi universale.

ricerca di Dio: una versione estrema della sindrome da mattina di Natale.

riposo fittizio: l’incapacità di molti individui di addormentarsi se non hanno letto anche solo una minima quantità di fiction.

scienza familiare intravincolare: il bisogno di stare con persone di famiglia, non perché siano persone con le quali possiamo parlare di tante esperienze comuni, ma perché sono quelle che sanno esattamente quali argomenti evitare.

separazione complessa: la teoria, in musica, secondo cui una canzone ha una sola occasione per lasciare una prima impressione. Dopodichè, il cervello comincia a frammentare l’esperienza musicale nelle sue varie componenti: testo, melodia eccetera.

sindrome da mattina di Natale: sensazione prodotta dalla stimolazione dell’amigdala anteriore che ci lascia carichi di aspettative.

stress da onniscienza: il sovraffaticamento che colpisce chi sa già quasi tutto quello che legge in rete.

stufax: un farmaco micromirato del futuro per curare casi assolutamente particolarissimi di disturbo ossessivo-compulsivo: in questo caso, una compulsione che riguarda l’incapacità di alcuni individui di convincersi, una volta usciti di casa, di avere spento a stufa.

teorema di Rosenwald: la convinzione che solo le persone sbagliate sono dotate di autostima.

teoria cristallografica del denaro: l’ipotesi che il denaro sia una cristallizzazione o condensazione di tempo e libero arbitrio, le due caratteristiche che separano l’essere umano dalle altre specie.

teoria del numero chiuso amoroso: la convinzione che ci sia un numero finito di volte in cui ci si può innamorare, di solito sei.

triste verità: siete più intelligenti della tv. E allora?

vip shock: il modo sproporzionato in cui reagiamo incontrando una celebrità, simile a quando riceviamo una notizia che ci cambia la vita.


Douglas Coupland, Dizionario del futuro prossimo.

mercoledì 3 novembre 2010

Tree of Men - Douglas Coupland II





[SEGUE]


disforia identitaria da aeroporto: definisce la misura in cui i viaggi moderni spogliano il viaggiatore della sua identità quel tanto che basta a creare il bisogno di acquistare adesivi e articoli da regalo per puntellare una personalità lievemente erosa: bandiere del mondo, stemmi nobiliari, gadget di scuole e università.

disinibizione situazionale:  situazioni sociali in cui si è autorizzati a essere disinibiti, cioò momenti di disibinizione culturalmente approvata: quando si parla con un’indovina, con un cane o altri animali domestici, con estranei o baristi nei locali pubblici, o con un medium.

domenicofobia: paura delle domeniche, una condizione che riflette la paura del tempo libero. Anche nota come ansia calendarica. Da non confondersi con domingofobia o kyriakofobia, paura del giorno del Signore.

frankentime: il tempo come lo percepiamo quando ci rendiamo conto di passare la maggior parte della nostra vita con e intorno a un computer e a internet.

humanalia: cosa fatte da umani che esistono solo sulla Terra e in nessun altro posto dell’universo. Alcuni esempi: il teflon, l’aspartame, la paroxetina, pezzi di dimensioni rilevanti di tecnezio.

ikeasì: il desiderio, nella vita quotidiana e nella vita del consumatore, di aggrapparsi a oggetti dal design “generico”. Questo bisogno di forme chiare ed essenziali è un mezzo per semplificarsi la vita sotto un bombardamento di informazioni.

legge di Bell della telefonia: qualunque tecnologia usiate, la vostra bolletta del telefono resterà magicamente invariata.

malinconia interaffinitaria contro malinconia extraffinitaria: cosa è peggio: essere single e sentirsi soli, o sentirsi soli in un rapporto morto?

memesfera: il regno delle idee culturalmente tangibili.

memoria interrodiretta: ci ricordiamo solo i semafori rossi, mai quelli verdi. Quelli verdi ci fanno seguire il flusso, quelli rossi ci interrompono e ci disturbano.

miottrie: l’incapacità di vederci chiaramente come ci vedono gli altri.

postumano: qualunque cosa sia quello che diventeremo poi.


[CONTINUA]





martedì 2 novembre 2010

Tree of Men - Douglas Coupland



amnesia karaokea: molti non conoscono tutte le parole neppure di una sola canzone, soprattutto di quelle che amano di più (vedi anche creta lirica).

avversione malfattoria: la capacità di capire quello che non sai fare nella vita e smettere di farlo.

cecità alla nube: l’incapacità di alcune persone di vedere facce o forme nelle nuvole.

cecità alla voce interiore: la quasi universale incapacità degli individui di articolare il tono e la personalità della voce che forma il loro monologo interiore.

confusione zoosonnale: l’idea che probabilmente gli animali non vedono una gran differenza fra sogno e veglia.

colletti blandi: ex lavoratori della classe media che non saranno mai più classe media e non se ne faranno mai una ragione.

controcaso: una condizione nell’universo in cui esistono condizioni rigide per impedire che si verifichino coincidenze. Considerando il numero infinito di coincidenze che si possono verificare, in realtà se ne verificano molto poche. L’universo esiste in uno stato di controcaso anticoincidenziale.

coveronzìo: la sensazione che proviamo ascoltando la cover di una canzone che conosciamo già.

creta lirica: le parole che inventiamo quando non sappiamo le vere parole di una canzone. 

denarrazione: il processo attraverso il quale la nostra vita smette di sembrarci un racconto.

deselfizzazione: diluire intenzionalmente il proprio io inondando internet del maggior numero di informazioni possibile (vedi anche stress da omniscienza, dedeselfizzazione).

dedeselfizzazione: il tentativo, di solito frenetico ed inutile, di invertire il processo di deselfizzazione.

deviazione di standard: sentirsi unici non è un’indicazione di unicità, eppure è proprio quella sensazione di unicità a convincerci che abbiamo un’anima.  

[CONTINUA]